Le parole sono lo strumento scelto in questa sezione per farti entrare nel mondo di Faraja House.
Cercheremo di essere quanto più possibile completi ed esaustivi, conducendoti lungo un percorso che ti aiuterà a conoscerne
Questa sezione, inoltre, coerentemente con la sua denominazione, accoglie i frammenti di memoria di quanti, avendo avuto la fortuna di conoscere direttamente Faraja House ed il Tanzania, desiderino darne testimonianza.
Sinora si possono leggere i seguenti frammenti di memoria:
Sorto presso il villaggio di Mgongo, a pochi chilometri dalla città di Iringa, capoluogo dell'omonima regione posta quasi al centro del Tanzania, in Africa orientale, Faraja House (Casa della Consolazione) è un centro fondato dai Missionari della Consolata per far fronte al crescente problema dei "ragazzi di strada".
In vero, i giovani accolti presso Faraja House si potrebbero forse definire con maggiore precisione "ragazzi in strada" (street children), ovvero ragazzi e bambini che vivono giorno e notte per strada. Nella maggior parte dei casi tale condizione può essere conseguenza di uno stato di abbandono da parte della famiglia, della morte dei genitori o della fuga del bambino dal suo ambiente familiare. Di conseguenza il ragazzo è abbandonato a se stesso o vive con altri come lui, ma è comunque fuori dalla società. Quindi non frequenta la scuola, dorme dove gli è possibile (su un bus in sosta per la notte, sotto i banchetti del mercato, in case abbandonate, nei mucchi di pula del riso vicino ai mulini, in case in costruzione, ...) e si trova a dover "cercare" un modo per sopravvivere. Tutto questo lo porta abitualmente a sconfinare nell'illegalità: non di rado si tratta di furti, magari piccoli, ma che, ciò nondimeno e nonstante la giovane età, possono portare alla detenzione in carcere (si tenga presente che in Tanzania non è mai esistito alcun carcere minorile; solo di recente (2003-2004) ne è stata avviata l'introduzione, almeno in forma di ambiente per minori all'interno di strutture carcerarie per adulti).
Nei confronti dei molti giovani cercati, trovati o ricevuti in "affidamento", i tre principali obiettivi che Faraja House si prefigge di raggiungere e su cui ha basato e organizzato la propria attività sono:
Il progetto nasce nel 1993 con l'acquisto, da parte dei Missionari della Consolata, di una fattoria nel villaggio di Mgongo, fino a quel momento utilizzata per la coltivazione del tabacco.
L'impoverimento del terreno e la deforestazione selvaggia avevano notevolmente compromesso l'attività agricola, cosicché, dall'iniziale progetto di destinare l'area alla coltivazione ed all'allevamento, nacque prima l'idea di farne un centro di formazione per catechisti, quindi si cominciò a pensare ad un centro per la riabilitazione dei ragazzi di strada.
A tale scopo, fu coinvolta da subito l'ONG italiana Movimento Sviluppo e Pace di Torino, attraverso la quale si approntò un progetto per la costruzione di un centro per la risocializzazione dei ragazzi di strada che ottenne una sovvenzione da parte dell'Unione Europea. Nel progetto erano descritte nel dettaglio le varie fasi di costruzione e di sviluppo della struttura che, pensata per arrivare ad accogliere fino a 100 ragazzi in difficoltà, sin dall'inizio prevedeva sia Faraja House sia la Scuola Tecnica.
Successivamente fu coinvolta l'ONG spagnola Manos Unidas, la quale collaborò anch'essa fattivamente alla crescita ulteriore di Faraja House.
L'organizzazione prevedeva la divisione dei ragazzi accolti in gruppi o famiglie di 8-10 elementi. Si era inoltre ottenuta, per la parte formativa, la collaborazione della Associazione Papa Giovanni XXIII. Nel 1994 si iniziarono le prime costruzioni: due abitazioni, di cui una più ampia, adibita ad ospitare 24 ragazzi, ed una di dimensioni minori destinata ai formatori.
Nel 1995-1996 l'Associazione Papa Giovanni XXIII cominciò l'attività a Mgongo con 9-10 bambini. All'inizio del 1997, in un incontro con don Benzi anima dell'associazione, furono discusse le condizioni ritenute indispensabili per il personale che avrebbe dovuto operare presso il centro: la permanenza in loco per un periodo non inferiore ai 3-4 anni, l'apprendimento della lingua swahili e l'incremento del numero degli assistiti. La mancanza di personale in grado di ottemperare a tali requisiti determinò il ritiro dell'associazione dal progetto.
Il giorno 1 maggio 1997 il centro passò sotto la gestione diretta dei Missionari della Consolata, nella persona di padre Franco Sordella. La struttura prese quindi il nome Faraja House ed il numero degli assistiti fu in breve portato da 10 a 24.
Grazie anche al confronto con Movimento Sviluppo e Pace, emerse sin dall'inizio la necessità di assicurare un'adeguata formazione professionale ai ragazzi che terminavano il ciclo delle scuole primarie, il che suggerì la costruzione di una Scuola Tecnica (Chuo cha Ufundi) contemporanea alla nascita del centro, per evitare di prendere i ragazzi dalla strada e ributtarveli pochi anni dopo senza più nemmeno gli anticorpi che in qualche modo avrebbero permesso loro di sopravvivere.
Nel corso degli anni il numero dei minori ospitati presso Faraja House è gradualmente cresciuto, fino a raggiungere l'attuale (settembre 2004) numero di 84 fra ragazzi e bambini, dai 6 ai 20 anni.
Il centro è guidato dallo Mkurugenzi, ruolo attualmente rivestito da padre Franco Sordella. Lo affiancano padre Giulio Belotti nella veste di amministratore e fratel Boniface Mutisya in qualità direttore della Scuola Tecnica.
Da dicembre 2002 è presente nella struttura una coppia di Laici IMC provenienti dal Portogallo, Paulo Rocha e Teresa Silva, che collaborano all'educazione dei giovani di Faraja House ed all'insegnamento nella Scuola Tecnica.
A supporto sono stati nominati due comitati: un comitato IMC, eletto dal Superiore Regionale dei Missionari della Consolata ed un comitato formato da laici esterni che include varie personalità del mondo politico, sociale, istituzionale ed educativo locali, nonché una rappresentanza dei parenti dei ragazzi.
In realtà, Faraja House non è che una delle tre strutture, distinte ma interdipendenti, di cui è costituita la missione di Mgongo: oltre a Faraja House, infatti, ne fanno parte anche la Scuola Tecnica e un Dispensario, ciascuna dotata di un'organizzazione interna e di proprio personale.
La Scuola Tecnica (Chuo cha Ufundi) è un istituto per la formazione professionale approvato dal VETA (Autorità Governativa per le Scuole Tecniche del Tanzania) sin dal 2000 e, come tale, riconosciuto dal governo.
Essa è dotata di collegio (dormitori e mensa) ed attualmente (settembre 2004) ospita 62 giovani suddivisi in tre specialità: calzoleria, falegnameria e meccanica (tornitura/saldatura). Ha una sua direzione, con un preside, un formatore ed un suo aiutante, coadiuvati da sei maestri, due per specialità, tutti africani.
Ogni anno sono accolti 10 nuovi allievi per specializzazione provenienti da ogni parte del Tanzania e ciascun corso ha la durata obbligatoria di tre anni, più uno opzionale. Ad ogni allievo, all'inizio del primo anno, viene fornita una cassetta di attrezzi, che rimarrà di sua proprietà al termine del corso di studi.
In teoria gli allievi dovrebbero pagare una retta annua di alcune migliaia di scellini (a settembre 2004, 1 Euro vale circa 1350 Tsh). In pratica, poiché essi provengono direttamente da Faraja House (dunque dalla strada) o comunque da situazioni di povertà tali da non consentire l'iscrizione alle scuole secondarie, si è scelto di far loro pagare una tassa poco più che simbolica, affinché anche a giovani appartenenti a famiglie meno abbienti fosse data la possibilità di frequentare una scuola superiore di buona qualità.
Recentemente (seconda metà del 2004), allo scopo di aiutare l'inserimento nel mondo del lavoro dei giovani che terminano gli studi professionali, si sta cercando di avviare una cooperativa nella quale essi possano iniziare a lavorare con un minimo di supporto.
Il dispensario, infine, è stato interamente realizzato con il supporto di Figurella Italia ed inaugurato il 14 marzo 1999. Fu inizialmente pensato con l'idea di fornire un aiuto soprattutto ai ragazzi della missione e al personale che vi lavora e vive, ha inevitabilmente finito per servire anche la popolazione dei villaggi vicini (da cui l'aggiunta di un piccolo reparto maternità).
È una struttura, gestita da un medical assistant, un'ostetrica, una laboratorista ed un'infermiera ed è dotata di una farmacia e di un laboratorio di analisi.
Oltre alle numerose attività connesse al piccolo reparto di ostetricia, le malattie che si trova quotidianamente a dover affrontare con maggior frequenza sono tutte le malattie tipiche dei paesi poveri e dell'Africa in particolare: schistosomiasi (o bilarziosi), malaria e AIDS. Si rimanda alla sezione documenti per un approfondimento di queste patologie in Tanzania.
I ragazzi ospitati presso Faraja House sono impegnati in numerose attività, volte a favorire il loro recupero ed il raggiungimento di una completa maturità.
Fra le principali ricordiamo:
Questa sezione comincia finalmente a popolarsi, confermando quanto numerosi, vividi ed intensi siano i ricordi di Faraja House in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di trascorrervi almeno qualche giorno.
Ancora una volta, naturalmente, continua l'invito, per coloro che lo desiderino, a far pervenire un contributo per la pubblicazione. Un GRAZIE! a chi vorrà accoglierlo e, soprattutto, a Maria che ha avuto il coraggio di rompere il ghiaccio.
Saluti dal freddo
Come si sta in Tanzania in questo periodo? Qui è arrivata la prima neve e oggi fa davvero freddo.
Ovviamente questa settimana abbiamo ancora più nostalgia di voi e non solo per il tempo. Sabato scorso siamo finalmente riuscite ad organizzare la nostra serata per raccontare l'Africa ed è stata un'esperienza veramente piacevole e gratificante. Quando sono partite le diapositive e Maria ed io abbiamo cominciato a raccontare, era come se foste tutti lì con noi. Il nostro carissimo don Carlo ci ha messo a disposizione la chiesa e dopo un pomeriggio con Maria impegnata a fare le torte e io che trafficavo per imparare ad usare computer e proiettore siamo andate a recuperare la mia mamma e abbiamo atteso che arrivasse qualcuno, un po' titubanti a dire la verità perchè era prevista la nevicata e molte persone non se la sono sentita di prendere la macchina per raggiungerci... e invece ne sono arrivate altre che non saprei nemmeno dire chi sono e hanno seguito interessatissime in silenzio il nostro racconto.
Per noi è stato stupendo tornare indietro nel tempo, ricordare le battute dei nostri compari mandati dal Signore, commuoverci alla foto di tutti quei bimbi sulla jeep, commentare con una battuta gli inconvenienti, descrivere i ragazzi, il nostro piccolo grande uomo Franco e le innumerevoli grandi cose che fa ogni giorno, il saggio Giulio seduto su un carrello con le valigie, il tremendissimo ma anche tenerissimo Joseph, gli ordini impartiti dal mio generale Anna durante il bucato e noi che tentavamo di scappare, mentre Justin più preciso di lei la teneva d'occhio quando gli ha sottratto la camicia per lavargliela... le persone si commuovevano, ridevano, ascoltavano e ne erano affascinate... d'altronde è successo anche a me quando Maria mi ha parlato di voi la prima volta. Alla fine abbiamo ricevuto un applauso scrosciante, don Carlo ha cercato di far parlare mia mamma ma alla domanda: "Cosa ci dici del tuo viaggio in Africa?" lei ha risposto come tutte le volte: "Mi mancano e non vedo l'ora di tornarci!"... applausone, lacrimoni (ma siete gli unici ad intenerire quella stupenda donna che è mia madre, lo sapete?)... e poi via, tutti insieme in oratorio a mangiare i dolcetti, chiacchierando ancora di voi e dell'incredibile esperienza di avervi incontrati. Qualcuno mi ha pure detto di non avermi mai capita, che non si sarebbe mai aspettato che io fossi "così"... "così" come? Felice di essere utile agli altri e soprattutto a chi voglio bene? Stai a vedere che adesso se ne accorgono!
Speriamo di riuscire ad organizzare altre serate così... ci hanno proposto di andare in tournée... per le parrocchie o nelle associazioni... vedrai che piano piano qualcosa riusciremo a fare.
Intanto qualche soldino è arrivato e per Natale i miei amici sono già avvisati... io voglio solo un regalo: che pensino a voi... perchè questo mi rende davvero felice. Oggi hanno suonato alla porta di casa ed è arrivata la signora che abita di fronte a me con 20 euro di sua sorella per i "miei bimbi" africani. Me li ha portati prima di Natale per evitare di dimenticarsi...
Una storia carinissima sta succedendo a casa di un'amica che ha parlato ai suoi bimbi di 7 e 4 anni dei loro fratellini che abitano da padre Franco. Sembra che il bimbo, Matteo, sia andato a scuola con il suo salvadanaio dicendo che ognuno doveva metterci una monetina perchè la "zia Silvia", che non aveva bambini, adesso ne ha più di tutti e deve dare loro il cibo ogni giorno, poi ha trovato 20 centesimi sul pullmino e ci ha messo dentro pure quelli. E quando ho detto alla sua mamma che te l'avrei raccontato mi ha risposto che sarebbe corsa a dirglielo perché queste cose lo fanno sentire speciale anche se non vuole farlo vedere.
Come vedi, ognuno nel suo piccolo, nonostante il periodo veramente pesante a livello economico, cerca di fare qualcosa... io sono convinta che anche poco ma fatto col cuore è sempre un buon inizio e un valido aiuto.
Silvia, 2 dicembre 2010
Appunti di viaggio
16 luglio Finalmente si parte! È il momento atteso da un anno intero. Dicono che si chiami mal d'Africa: non saprei, certo l'esperienza di questi 3 anni a Faraja House è stata così intensa e coinvolgente, che non riesco nemmeno ad immaginare le mie vacanze in un'altra località turistica. Ogni anno è un incontro e una scoperta, nuove emozioni da vivere a fianco di questi piccoli amici, che hanno ormai un posto fisso nel cuore dei loro Wageni (ospiti).
Faraja House, la "Casa della Consolazione", a pochi km da Iringa in Tanzania, è un centro di accoglienza e recupero per i bambini di strada e in soli 6 anni ha ospitato più di 80 ragazzi, diventando il loro rifugio, la loro casa, la loro famiglia. Tutto ciò ha il "sapore" di un miracolo: questi ragazzini, oggi così sereni, simpatici e affettuosi, erano dei piccoli delinquenti, abituati a vivere di espedienti per le strade di Iringa. Molti di loro hanno vissuto storie di abbandono, solitudine, fame, violenze; aggressivi per sopravvivere, senza un futuro, senza sogni! L'incontro con padre Franco ha offerto loro una speranza: sono stati "raccolti", sfamati, ma soprattutto amati. Padre Franco è il responsabile della Comunità: uomo generoso, determinato e coraggioso, missionario per i poveri e tra i poveri. E i ragazzi di strada sono davvero l'ultima frontiera della povertà. Padre Franco ne ha fatto la sua ragione di vita e ha scelto di aprire le porte della sua casa e del suo cuore a questi "figli" in cerca di affetto.
17 luglio All'aeroporto di Zurigo l'appuntamento con i miei compagni di viaggio, Bruna e Lucio di Bologna, anche loro come me incantati dalla magia dell'Africa, dalla sua gente semplice e accogliente, dal sorriso dei bimbi. Insieme trascorreremo una settimana all'isola di Mafia, un piccolo e poco conosciuto "paradiso terrestre" nell'Oceano Indiano. Abbiamo l'opportunità di visitare l'isola e di conoscerne la realtà, ed essendo gli unici Wazungu (Europei) in circolazione la gente ci saluta chiamandoci per nome: "Habari, Mama Maria"!
25 luglio È l'alba, una nebbiolina leggera si sta alzando dal porto di Dar es Salaam per lasciare il posto ad un caldo sole africano. Il taxi puntualissimo ci sta aspettando per accompagnarci al Bus Terminal, da dove partiremo per Iringa. Il viaggio è lungo, ma ci permette di ammirare paesaggi molto diversi: la lussureggiante zona costiera, ricca di palme e banani; la piana di Morogoro, con le coltivazioni di sisal; il Parco Nazionale di Mikumi, dove riusciamo a fotografare anche un po' di animali; la foresta dei baobab. Una breve sosta per il pranzo in una specie di... autogrill della savana, dove ci offrono una frittata servita su un foglio di giornale (!) e finalmente Iringa. Alla fermata ci aspetta padre Giulio, quasi 80 anni, una vita donata all'Africa e ai più poveri. Da qualche anno condivide con padre Franco l'impegno di Faraja House, ed è diventato il "babu" (nonno) di circa 80 nipotini.
Tornare a Iringa, anno dopo anno, è un po' come ritornare a casa ("a home away from home" direbbero gli Inglesi), ritrovare amici e affetti, vedere i ragazzi che crescono. Alcuni di loro hanno ormai preso il volo: A.(1) studia a Moshi; Y.(1) con O.(1) e altri, alla scuola superiore di Mafinga; E.(1) ha trovato lavoro in una fattoria, il suo sogno; E.(1) e A.(1) sono ormai grandi e tra pochi mesi lasceranno anche loro la comunità, per proseguire gli studi.
26 luglio Giornata dedicata agli incontri e ai saluti: i ragazzi, gli educatori, gli studenti del Chuo (la Scuola Professionale). I bimbi "nuovi" sono tantissimi, almeno una decina: alcuni sono molto piccoli e già portano sulle spalle il peso della sofferenza. A.(1) e Z.(1) avranno 5 o 6 anni, sono due simpaticissime canagliette, sempre in cerca di guai; vanno all'asilo e sono davvero bellissimi nella divisa gialla e nera con la cravattina a righe. A.(1) è stato ritrovato abbandonato e semiassiderato in un fosso; Z.(1) è fuggito di casa con il fratello maggiore, dopo aver assistito ad un omicidio. Il loro sorriso è divertente e commovente insieme e la loro voglia di ridere, giocare, scherzare diventa subito contagiosa.
Alla sera c'è la festa di benvenuto: cena a base di riso e fagioli con stufato di pecora; canti, balli e scenette; i discorsi per dirci "Karibuni sana, wageni wetu" (benvenuti amici). Per finire la serata di festa c'è anche la torta, preparata dalle giovanissime cuoche, con la consulenza dell'esperta Justina, che dopo anni di servizio a fianco dei padri piemontesi... ha imparato a cucinare anche il "bagnet".
31 luglio Giovedì mattina, una giornata normale alla Faraja. Anche noi cerchiamo di renderci utili e andiamo in città per la spesa. La macchina bianca con la scritta "Consolata Fathers" è facilmente riconoscibile e in pochi minuti tutti i venditori di frutta e verdura ci salutano come gli "amici della Faraja". Ad aiutarci si presenta subito J.(1): è un ragazzo di strada, a cui padre Franco ha trovato un lavoro per mantenersi; con l'aria spavalda da giovane imprenditore, affida la sua botteguccia al socio e ci accompagna per il mercato.
I ragazzi a quest'ora sono a scuola: si svegliano prestissimo per essere puntuali in classe alle 7.00. Torneranno nel primo pomeriggio; tempo per il pranzo e poi al lavoro: ogni squadriglia ha il suo compito, gli animali, l'orto, il frutteto. Infine un meritato momento di riposo per giocare a pallone, calcetto, ping pong o per starsene semplicemente tranquilli a chiacchierare. Alle 6.00 c'è il doposcuola, i compiti, il corso di Inglese, ogni gruppo classe nella sua saletta-studio. È una cosa che non finisce mai di stupirmi: dopo una giornata così intensa, sono qui seduti, silenziosi e attenti, nei loro occhi scuri la curiosità, la voglia di imparare. È difficile, anche a casa, dimenticare questi sguardi: ma qui lo studio è speranza per il futuro, significa lasciarsi definitivamente alle spalle un passato che fa ancora male!
8 agosto Festa di Nane Nane (il giorno 8 dell'ottavo mese) e giornata di vacanza. Al pomeriggio, è in programma una gita in bicicletta fino a Iringa. Tutti felicissimi, sono già pronti con 1 ora di anticipo, in sella, attrezzati con K- Way e borracce; i piccoli si aggirano un po' invidiosi e, prima che a qualcuno venga in mente di farli restare a casa, si precipitano sulle macchine: saranno almeno in 20, ma qui nessuno si sognerebbe mai di fermare un'auto o un bus perché stracarichi di gente! Naturalmente ci aggreghiamo anche noi, saremo l'auto dell'assistenza tecnica: Lucio alla guida, Bruna ed io con il kit di pronto soccorso alla mano, mentre i piccoli ci allietano per tutto il pomeriggio con una specie di Zecchino d'Oro africano.
10 agosto Oggi è festa, ci sarà il battesimo di M.(1), con Bruna e Lucio emozionatissimi padrini. M.(1) è una ragazzina disabile, orfana, che vive con la zia in una misera capanna a pochi km dalla Faraja; non va a scuola e non può fare pressoché nulla, se non stare seduta sul ciglio della strada a salutare i passanti. Nonostante il suo dramma, M.(1) accoglie chiunque le si avvicini con un sorriso radioso che tocca il cuore.
Oggi è lei la reginetta della festa, elegantissima e felice nel suo nuovo completo bianco e rosso, con la sedia a rotelle che le consente di muoversi e di vedere per la prima volta... il mondo! A festeggiarla ci sono la zia, la sorellina, i cuginetti, qualche vicino di casa e intorno i nuovi amici di Faraja House. Basta proprio così poco per far felici dei bimbi?
14 agosto Appena sorge il sole, si parte per Ikonda. Suor Magda ci ha invitati a visitare l'ospedale, costruito dai missionari della Consolata in uno sperdutissimo villaggio di montagna. Ci accompagna Olivo, il giovane "preside" del Chuo; con lui alla guida possiamo ammirare il panorama: le foreste di eucalipti, le piantagioni di té; poi si sale verso le montagne di Kipengere, sempre più in alto, lungo uno sterrato che si snoda attraverso valichi e vallate incontaminati, fino al confine con il Malawi. Ikonda è un altro miracolo, nato dal coraggio e dalla fede di qualche intraprendente missionario: 200 posti letto, un laboratorio analisi tra i migliori in Tanzania, sale operatorie, dove spesso si alternano medici volontari Italiani. Ad occuparsene oggi sono 5 suore e 2 padri, coadiuvati dal personale locale: medici, infermieri, biologi. Non si può fare a meno di ammirare il lavoro, il sacrificio, la dedizione di tutte queste "Madre Teresa"!
24 agosto La vacanza sta finendo, si riparte per Dar e di lì verso casa. Ieri sera c'è stata un'altra festa, questa volta per dirci addio. Come si fa a non commuoversi di fronte ai regali, alle scenette, ai canti con cui ci dicono "tornate presto"? E adesso sono tutti qua intorno, un'ultima carezza, un abbraccio, un bacio ai più piccoli; S.(1), l'ultimo arrivato, mi stringe la mano sussurrando: "Mungu akubarikie" (Dio ti benedica)!
Maria, 2003
I piccoli, grandi miracoli di Faraja House!
Non mi sembra vero, sono di nuovo a Iringa, è già passato un anno! Il paesaggio mi è ormai diventato familiare: il laghetto di Kihesa, la solita terribile strada sterrata, le capanne con la porta socchiusa illuminate dalla luce tenue di una candela, i venditori di carbone e di legna che arrancano lungo la salita con le loro biciclette stracariche. Tra poco si vedranno le luci di Faraja House, la croce luminosa sul tetto della nuova chiesa, gli edifici dai colori vivaci.
L'emozione non manca di certo: rivedersi dopo tanto tempo è sempre un momento carico di attese, di gioia, di commozione.
Ed eccoli, i miei piccoli amici: la loro accoglienza calorosa è come un grande abbraccio che mi avvolge appena scendo dalla macchina. M.(1) teme che non lo riconosca e con aria compita, da vero gentleman, mi stringe la mano e si presenta: "My name is M.(1)". I.(1) e M.(1) sanno bene che è impossibile dimenticarli e reclamano la loro parte di attenzione tirandomi per una manica. M.(1), C.(1) e M.(1) sono un po' in disparte, ma sorridono aspettando un saluto "personalizzato".
I sorrisi luminosi che mi erano rimasti nel cuore!
I primi giorni a Mgongo sono dedicati a conoscere i nuovi arrivati, che mi scrutano incuriositi, mentre gli amici ... "di vecchia data" mi raccontano le novità: il corso di chitarra, le competizioni internazionali di karate a Mombasa, i progressi scolastici. Insomma, alla Faraja non ci si ferma mai: la scuola di computer per le ragazze è terminata con risultati lusinghieri; il progetto delle cooperative, per gli studenti che stanno terminando la scuola professionale di meccanica e falegnameria, sarà avviato tra breve. E poi c'è l'inserimento nella comunità di una decina di bambini che vivevano in strada.
Sono piccolissimi, con uno sguardo malinconico e gli occhioni che esprimono un grande bisogno di affetto: sono arrivati con il loro bagaglio di sofferenza, di paura, di fame. N.(1) è qui da poche settimane, ha 8 anni, ma non ne dimostra più di 5; abbandonato da tutti, veniva usato dai ladri per entrare dalle finestre delle abitazioni. Ha già iniziato ad andare a scuola e con molto orgoglio mi mostra i quaderni, sistemati in ordine nello zainetto più grande di lui. E' bellissimo e commovente vedere tutti i "nuovi" fratelli maggiori che lo aiutano, lo coccolano, lo riempiono di attenzioni!
Anche J.(1) e F.(1) sono arrivati da pochi mesi: furbetti e intelligenti, frequentano la prima elementare. J.(1) è il primo della classe e alla festa di chiusura del trimestre riceve il premio meritato: colori, penne, quaderni, maglietta e calzoncini. Non sono esattamente della sua misura, ma che felicità quando la domenica a messa può sfoggiarli davanti a tutti!
A.(1) ha un visino grazioso, dai tratti delicati; anche lui ha alle spalle una lunga storia di abbandoni e di lacrime: la madre è morta quando era piccolino, il padre non sapeva che farsene e il bimbo è sopravvissuto in qualche modo per strada. Lo ha trovato padre Franco, al mercato, qualche mese fa. Alla Faraja ha deciso di cambiare vita e si fa chiamare R.(1), come l'eroe di una telenovela tanzaniana; ma quando è ora di ricevere i dolci o le caramelle, ti guarda con un sorriso furbetto e suggerisce: "Una per A.(1) e una per R.(1)!"
Le giornate a Mgongo scorrono veloci, tra mille attività, feste, ospiti e qualche gita in bicicletta. Durante la settimana, anche se è periodo di vacanza, si lavora e si studia; al pomeriggio ci sono le lezioni di karate, il computer e la partita a pallone, con le divise nuove e fiammanti arrivate dall'Italia.
C'è anche il corso di Inglese, soprattutto per i più grandi che tra poche settimane dovranno sostenere gli esami, ed è stupefacente vedere con quale entusiasmo e curiosità affrontano le 2 ore quotidiane di lezione: insieme leggiamo dei libri, ripassiamo la grammatica, ascoltiamo delle storie, giochiamo a Bingo o "Hanged man". Non c'è la campanella che segnala l'intervallo, ma nessuno sembra preoccuparsene: è bello stare insieme, anche a studiare, i nuovi libri sono interessanti e divertenti, ma la cosa più importante è che riusciamo a comunicare.
In cortile gli aspiranti "Picasso" stanno dipingendo i muri con soggetti allegri e simpatici: pennello in mano, tavolozza dei colori a tempera, qualche aiutante ai piedi della scala per evitare incidenti. Nel frattempo, nella saletta della TV, P.(1), E.(1) e C.(1) si esercitano alla chitarra e alla tastiera: non conoscono ancora la musica, non hanno spartiti da leggere, ma suonano incredibilmente bene.
A volte mi sorprendo a chiedermi: com'è possibile che dei ragazzini così intelligenti, affettuosi e sensibili siano stati dei "delinquenti da strada"?
Fino a qualche anno fa vivevano di espedienti al mercato di Iringa: sporchi, laceri e sicuramente anche spaventati; chiedevano l'elemosina o rubavano per mangiare; dormivano dove capitava, magari un po' nascosti per evitare aggressioni o violenze.
Oggi sono adolescenti sereni, con tanta voglia di vivere e di dimenticare un passato, che per molti di loro è una ferita ancora aperta. Alla Faraja hanno trovato cose per noi scontate o banali, ma che rappresentano un sogno quasi irrealizzabile per i "ragazzi di strada": una casa, un letto pulito e morbido, pasti caldi e nutrienti, l'acqua per lavarsi e abiti puliti; ma soprattutto hanno trovato una famiglia, un "padre" che li ha accolti in un abbraccio rassicurante, un mondo di affetti e di tenerezza che non conoscevano.
Maria, agosto 2002
Ritorno a Faraja House
Dal finestrino dell'aereo si intravede una striscia gialla di deserto in mezzo al mare di nubi. Sullo schermo davanti a me vengono proiettate le immagini e le informazioni relative al volo: stiamo sorvolando il Sudan. Sono di nuovo in Africa!
Ma chi me l'ha fatto fare, questa volta, di tornare da sola a Mgongo, in Tanzania, in questo piccolo e sperduto villaggio in mezzo alla savana, a 15 ore di aereo da casa mia? Non era più comodo andare in vacanza a Rimini, come fanno tutti?
Chiudo gli occhi e rivedo le immagini dell'estate scorsa a Faraja House: i momenti passati a giocare e cantare con i ragazzi; i loro sguardi attenti e curiosi durante le lezioni di Inglese; il safari al grande parco Ruaha. E poi - appena tornata a casa - il bigliettino trionfante di R.(1) e C.(1), che mi annunciavano di aver superato brillantemente gli esami e la letterina, tenerissima, di Z.(1), che mi invitava a tornare: "Welcome Faraja".
Arrivo a Dar es Salaam a notte fonda: dopo la fredda pioggerellina di Amsterdam, questo clima tropicale non mi dispiace. Ancora 600 km, 8 ore di auto, per raggiungere Iringa, sul vasto altopiano (1600 m) che degrada verso la Rift Valley.
Il tramonto è già passato quando i fanali della macchina illuminano il grande cancello di fronte alla chiesa in costruzione. E.(1) mi riconosce da lontano e il suo saluto attira l'attenzione degli altri. Ci sono quasi tutti: alcuni fatico a riconoscerli, tanto sono cresciuti; c'è anche qualche visetto nuovo che mi fissa perplesso.
Un bacio, un abbraccio, una carezza: bastano pochi minuti per riallacciare i fili di un'amicizia non dimenticata.
Adesso lo so perchè sono a Mgongo e non a Rimini.
Gli amici che mi accolgono sono, anzi erano, bambini di strada. Piccoli delinquenti, direbbe qualcuno. Quelli che vivono di espedienti e cercano di raggranellare qualche soldo facendo piccoli lavoretti (lavare i vetri delle auto in sosta, portare le borse della spesa) ma più spesso rubando. La sera cercano un rifugio per dormire, tra i cartoni sotto i banchetti del mercato coperto o in qualche "tana" sulle pendici della montagna, per sfuggire alle violenze dei più grandi.
Cinque anni fa, alla periferia della cittadina di Iringa, è nata Faraja House, la "casa della consolazione", il centro di accoglienza voluto dai Missionari della Consolata: un tentativo di aiutare questi ragazzi a recuperare un'esistenza normale.
Faraja House è diventata la casa e la famiglia per alcuni di loro: oggi sono 64, vivono qui, studiano, lavorano, giocano, praticano sport. Frequentano la scuola primaria del villaggio di Mgongo: anche A.(1) e F.(1), che hanno 18 anni. I più grandi sono già alle superiori, in qualche collegio lontano da qui; tornano a "casa" per le vacanze, perchè "alla Faraja si sta meglio" mi confessa candidamente R.(1).
I.(1), M.(1) e A.(1) sono i piccoli di famiglia: hanno 7-8 anni e vanno all'asilo; sono qui da pochi mesi, ma a quanto pare hanno già conquistato la palma d'oro della furbizia.
Il benvenuto ufficiale è in programma per il pomeriggio seguente, dopo la scuola. Arrivano con i loro tamburi: hanno preparato i canti e persino un discorso in Inglese. La mia conoscenza del Kiswahili si limita ai saluti, ma la maestra, efficiente e premurosa, affida a qualche volontario l'incarico di aiutarmi.
A.(1) e M.(1) accolgono questo nuovo compito con molta serietà: saranno proprio quelli passati con loro i momenti più belli di questa nuova avventura africana. Quante volte, al pomeriggio, mi sono ritrovata ad aspettare di vederli spuntare dal cancello: senza scarpe, come al solito, maglietta e pantaloni non proprio puliti, ma con i loro visetti allegri e sorridenti.
A.(1) ha 12 anni, è un bel bambino dai lineamenti delicati e dallo sguardo sveglio che rivela una grande intelligenza. È un genio al computer; e pensare che viene da uno slum di Dar es Salaam, insieme al fratello E.(1), con una tristissima storia di miseria e sofferenza.
Mi racconta qualche flash della sua vita familiare, in modo curioso, come se fosse un esercizio di traduzione. Riesco a capirne il senso e non posso fare a meno di commuovermi di fronte all'ultimo pensiero: "Maria ni rafiki yangu" (Maria è mia amica).
Con M.(1) ci conosciamo già dallo scorso anno e per tutti questi mesi ho avuto davanti agli occhi il suo viso triste al momento del mio ritorno in Italia e il gesto schivo con cui mi ha offerto il suo regalo ("a gift for you"): un sacchetto di plastica rotto e un po' sporco; all'interno un fiore, una conchiglia, uno dei suoi giochini.
Certe cose non si possono dimenticare!
Naturalmente, poco per volta, altri si aggiungono al "team" di insegnanti: c'è A.(1), addetto ai fiori del giardinetto, che sorride poco, ma ama stare in compagnia e non si perde mai un appuntamento; c'è E.(1), simpaticissimo, buono e paziente, quasi un fratello maggiore per gli altri ragazzi e C.(1), un "duro" al karate, ma con un disarmante e dolcissimo sorriso.
Non mancano mai neppure O.(1), bello e intelligente, sempre pronto allo scherzo; E.(1), uno degli ultimi arrivati, sereno e affettuoso, nonostante la brutta storia di abbandono e di miseria e Z.(1), interessato a tutto, dal binocolo ai giornalini in Inglese.
Quanta tenerezza nel vederli giocare, ridere, scherzare! A volte li guardo e mi chiedo: cosa sarebbe di loro se non ci fosse Faraja House? Un drammatico destino comune che fa rabbrividire: la strada, la fame, la prigione.
Ma adesso siamo qui insieme e il pomeriggio è tutto per loro: si lavora, si studia Inglese e computer, si gioca (anche a Bandierina); si chiacchiera, con un po' di fatica e tante risate, in 3 lingue diverse. Alla sera c'è il torneo di calcetto, la tombola a premi, i giochi e poi "a nanna" presto, perché la sveglia suona all'alba. Il fine settimana c'è il bucato da fare, il corso di karate e... chissà, magari qualche gita inaspettata con i "wageni" (gli amici italiani).
Padre Franco, il papà di questa grande e originale famiglia, ha scelto di camminare con loro, di fare dei ragazzi di strada la sua ragione di vita: li ha letteralmente "raccolti" al mercato o alla stazione degli autobus di Iringa, uno per uno, offrendo loro una nuova possibilità. Un cammino faticoso per tutti: una comunità ha le sue regole, non facili da accettare per chi ha vissuto allo sbando per anni.
Ma l'accoglienza rispettosa e delicata, il primo abbraccio dopo tanta solitudine, il calore di una casa e di una famiglia, sciolgono finalmente le paure e possono restitutire a questi ragazzi l'infanzia e la serenità che non hanno mai vissuto.
Le mie 5 settimane volano e il momento della partenza si avvicina.
Ci sarà una festa per salutarci, i canti e le scenette, i regali, la promessa di scriverci (già, ma in quale lingua?) e tanta commozione.
Le foto e i filmati aiuteranno forse ad attenuare la nostalgia, perché Mgongo è lontana e un anno, fino alle prossime vacanze, è ancora lungo!
Maria, agosto 2001
Faraja House: una storia d'amore
Dar es Salaam ci accoglie alle prime luci del mattino: fa già molto caldo in questa grande città della costa tanzaniana, affacciata sull'Oceano Indiano.
Un giro veloce, perchè non c'è tempo per visitarla: il porto, il mercato, il bellissimo lungomare dove hanno sede le ambasciate straniere. Si riparte subito; ci attende un lungo viaggio, 580 km, verso l'interno del paese, verso la savana africana. Durante il tragitto si attraversa il Parco Nazionale di Mikumi e, con un po' di fortuna, si possono vedere dalla strada elefanti, zebre, giraffe, gazzelle.
Dopo 8 ore di viaggio raggiungiamo Iringa: mancano ormai pochi km; attraversiamo il sobborgo di Kihesa con le sue casupole affacciate alle pendici della montagna. Il laghetto ci offre subito il quadro della situazione: non piove da mesi, il raccolto è stato misero, l'acqua scarseggia. Intorno al lago una piccola folla: i bambini giocano nell'acqua, le donne fanno il bucato, un camioncino carica taniche di acqua da vendere al mercato, gli animali vengono ad abbeverarsi.
Ancora qualche km di strada sterrata, buche e sobbalzi e scendiamo verso la vallata che porta al piccolo aeroporto; sulla destra si intravede il villaggio di Nduli, a sinistra le prime case del villaggio di Mgongo. Ancora un sobbalzo, ma questa volta non è la strada: è il cuore che batte per l'emozione.
Subito dietro le capanne, verso l'orizzonte infuocato da un tramonto come solo l'Africa sa offrire, appaiono le costruzioni coloratissime di Faraja House. Karibu si legge sul muro, benvenuti, e il sorriso accogliente di padre Franco ci dice che siamo finalmente... a casa!
Faraja House è in piena attività: i ragazzi più grandi studiano (gli esami sono vicini), un gruppetto ha appena terminato le attività lavorative quotidiane: l'orto, il campo, gli animali; i piccoli sono impegnati in una partita "a biglie" sulla sabbia e qualcuno si sta esercitando al computer. Tutto normale? Certo, ma nella sua normalità Faraja House è un posto davvero speciale.
Il Centro è nato 4 anni fa, destinato all'accoglienza dei "bambini di strada". La parola ci richiama subito alla mente le immagini delle favelas sudamericane, degli slums di Calcutta o di Nairobi o di tante altre città del Terzo Mondo. Un fenomeno ancora poco evidente nelle nostre città europee, ma una realtà inquietante e drammatica nei paesi poveri. Nemmeno la piccola città di Iringa fa eccezione, al punto che le autorità locali decidono di affrontare il problema. I Missionari della Consolata accolgono la sfida e nel giro di pochi mesi compaiono i primi edifici e i primi 9 ospiti.
Da allora Faraja House, "la casa della consolazione", è diventata una realtà viva e splendida: 58 ragazzi che vengono dalla "strada", una scuola professionale con 55 giovani che studiano e imparano un mestiere. Tutto coordinato da padre Franco Sordella, missionario coraggioso e tenace, ma anche "padre", affettuoso e dolcissimo.
Ad aiutare padre Franco ci sono giovani insegnanti ed educatori africani e padre Giulio Belotti, una presenza serena e rassicurante. Siamo invitati a cena ed è una gioia vedere tutti i 58 ragazzi a tavola, di fronte ad un pasto abbondante e nutriente, allegri e pieni di vita, che confabulano sottovoce: sono gli ultimi accordi per lo spettacolo di benvenuto che seguirà, canti e scenette per dirci "Karibu Wageni".
Eppure quanta sofferenza si nasconde dietro i loro volti; quante storie di abbandono, di miseria, di violenze subite, di fame!
Ognuno di loro è arrivato qui con il suo carico di dolore, di paura; sporco, lacero e affamato. Ognuno di loro qui ha trovato una casa, un piatto caldo, un letto pulito, ma soprattutto ha trovato l'abbraccio accogliente di padre Franco, l'affetto e la tenerezza che forse non aveva mai conosciuto prima.
Sì, Faraja House è un posto davvero speciale e ciò che lo rende speciale è l'Amore: solo questo potrà compiere il miracolo di trasformare dei ragazzini sbandati e abbandonati a se stessi in giovani consapevoli e capaci di affrontare il loro futuro.
Ogni volto, ogni nome è una storia.
A.(1) è uno dei più grandi del gruppo, vive qui da circa 3 anni: scappato di casa, viene arrestato per un piccolo furto e condannato a 7 anni di prigione (non esiste il carcere minorile e la prigione non è certo un luogo educativo per un bambino). Ancora una fuga e approda non si sa come alla Faraja: è spaventato, stracciato e ha bisogno di affetto; sa di avere ancora una famiglia da qualche parte che non ne vuole sapere di lui. Ha fatto un lungo e faticoso cammino in questi anni e oggi è un bellissimo ragazzo, dal fisico atletico, sicuro di sè, responsabile.
H.(1) ha 8 anni, è qui da 2 (aveva 5 anni quando si è trovato solo, sulla strada, ad arrangiarsi per sopravvivere!). Ha un visino serio e assorto, è timido, ma una mattina si presenta alla nostra porta sussurrando una frase in Kiswahili. Non capiamo cosa vuole dirci, ma probabilmente si sente rassicurato e si siede con noi a giocare. L'arrivo della maestra ci aiuta nella traduzione: "Voleva solo salutarvi e chiedere come è andato il vostro viaggio". La tentazione di stringerlo tra le braccia e coccolarlo è irresistibile. Nel frattempo abbiamo fatto amicizia: sarà per le caramelle con le figurine dei calciatori?
Se ci fosse un concorso per il sorriso più simpatico e accattivante si potrebbe candidare E.(1). Anche lui vive a Faraja House da 4 anni, è stato uno dei primi ad arrivare: non sa nemmeno da dove viene, dal Nord forse; i genitori sono morti, l'unico parente, un fratello maggiore, l'ha abbandonato alla stazione degli autobus ad Iringa, tanti anni fa. Anche per lui, come per altri, il cammino è stato lungo e faticoso, fatto di fughe e ritorni, di aggressività e desiderio di dolcezza. Oggi è un ragazzino sereno, dal carattere allegro e socievole, pronto alla battuta: non si può non affezionarsi a lui.
Certo i nostri eroi, vispi e arzilli come sono, spesso danno pure "qualche" grattacapo: l'ansia adoloscenziale per la libertà; il ricordo ancora presente, sotto sotto, di una vita senza regole; l'aggressività non sempre controllabile portano a volte alla fuga o ad episodi poco edificanti. Accettare anche questo, nonostante la sofferenza che può provocare in chi si occupa di loro, è segno di un amore profondo che sa non soltanto accogliere l'Altro, ma rispettarlo nella sua libertà.
Intanto la vita a Faraja House scorre normalmente: la scuola, lo studio sono una tappa fondamentale; per molti ragazzi si tratta di riprendere un percorso interrotto troppo presto, per altri mai iniziato. Tutti vanno a scuola, chi alla scuola primaria del villaggio, qualcuno alle superiori, altri sono passati alla scuola professionale annessa al Centro.
Poi c'è il karate, pensato apposta perchè è una disciplina rigorosa che insegna oltre all'autodifesa, l'autocontrollo ed il rispetto delle regole. Andiamo in città con loro, il giorno degli esami: nella palestra, di fronte agli altri ragazzini provenienti da ambienti socialmente elevati, con le loro divise impeccabili, la nostra squadretta fa tenerezza. Comunque sono i più bravi!
Ma il momento più commovente è senza dubbio la messa, alla domenica, nel salone adibito a chiesa. Gli studenti della scuola professionale, belli ed eleganti nella loro uniforme festiva, cantano e suonano; le bimbe del villaggio accompagnano i vari momenti della celebrazione con le loro danze e i ragazzini della Faraja si presentano con gli abiti più lindi e ordinati del loro guardaroba: se le scarpe non sono proprio pulite, poco importa, si va a messa con una sola! Quello che conta è la spontaneità della preghiera.
In 3 settimane impariamo a conoscerci e, nonostante l'ostacolo della lingua, si costruisce poco a poco l'amicizia. Forse un gesto affettuoso, un sorriso, una carezza valgono di più di qualunque discorso.
Maria, agosto 2000